GENNAIO 2021 INTERVISTA A "LUCA BOVINO" Testo di Rosalinda Di Noia

Ben trovati amici di Almax Magazine, da Rosalinda Di Noia!

Per l’angolo dedicato alla letteratura questo mese andiamo a fare un salto nel mondo della narrativa con un nuovo autore che non vi abbiamo mai proposto. 

Con molto piacere, ospite della rubrica abbiamo Luca Bovino, che ci presenta il suo libro “Tutta Una Questione Di Algoritmo” per la Casa Editrice Brè Edizioni.

Ma andiamo ad approfondire il tutto, con questa bella chiacchierata che ho fatto proprio con lui.

RDN: Ciao Luca, grazie di essere qui con noi e benvenuta!

LB: Ciao Rosalinda e grazie a voi!

RDN: Come è nata la passione per la scrittura?

LB: Sicuramente dalla lettura. È un po' come quando ascolti il tuo gruppo preferito, e poi inizi a strimpellare una chitarra, oppure quando vedi giocare in televisione una partita di calcio, e poi il lunedì ti ritrovi al campetto. Avviene tutto in modo abbastanza naturale, dopo aver assimilato un medium espressivo, ad un certo punto vuoi diventarlo tu stesso, vuoi provare a passare dall’altra parte della barricata comunicativa. Per quanto riguarda la scrittura, poi, la cosa è molto meno estemporanea di quanto possa apparire: l’Italia è diventato negli ultimi dieci anni un popolo di scrittori. E di lettori. Il passatempo preferito dei nostri connazionali è quello di muovere ripetutamente le dita davanti ad una tastiera partorendo, e facendo scorrere in continuazione davanti agli occhi caratteri tipografici. Certo, è un approccio frammentario, disordinato, sconnesso, probabilmente anche nocivo (non riuscirei a spiegarmi altrimenti fenomeni come il terrapiattismo, o il rettilianesimo. Solo un popolo di lettori aberranti può partorire simili basilischi). Però non si può negare che le cose stiano così: leggiamo e scriviamo male, magari, malissimo: però molto.

RDN: Quali sono gli scrittori o poeti da cui prendi spunto o comunque sono fonte di ispirazione per te o semplicemente ami leggere?

LB: È difficile rispondere a questa domanda perché sono un lettore onnivoro ed umorale. Non seguo regole precise, creo i miei percorsi in modo abbastanza spontaneo. Se c’è un libro di qualche scrittore che mi è piaciuto, più che tuffarmi in un altro dello stesso autore cerco invece di capire quali siano state le letture che abbiano influenzato quel testo, e provo a ripercorrerle anch’io. Per esempio, partendo da un giallo di Sciascia sono arrivato a Stendhal, e poi a Borges, e poi ad Allan Poe, e poi ad Aghata Christie, e poi Conan Doyle e poi a Umberto Eco. Nel mio romanzo, per esempio, sono citati molti autori che in modo diverso mi hanno influenzato: Dostoevskij, Rodari, Cerami. Nel libro menziono spesso anche la Pastorale americana di Philip Roth, e non è un caso, perché è stato il testo dal quale ho mutuato una particolare tecnica narrativa in un punto estremamente dinamico del racconto. E poi un altro mio grande riferimento è stato Milan Kundera, e in particolare due suoi romanzi: innanzitutto Il libro del riso e dell'oblio per le lapidarie riflessioni sul rapporto tra il comico e il dramma. Argomento cruciale, anche nel mio testo. E poi L'insostenibile leggerezza dell'essere, dov’è presente una delle pagine più illuminanti a proposito del rapporto - contemporaneamente contradditorio e unitario - tra l’ideale realistico e quello onirico. Devo riconoscere, però, che l’alfa e l’omega della mia tabe letteraria abbia un nome ben preciso ed è Jorge Luis Borges. Continuo ripetutamente a leggere e rileggere i suoi racconti, i suoi saggi, le sue poesie. E trovo sconcertante la naturalezza con cui riusciva a catalizzare contenuti dalla densità e dalla esplosività atomica in parole di così soave e armoniosa bellezza e leggerezza. Perdonami il bisticcio (apparente): leggere le sue frasi leggere è davvero un’esperienza forte, molto più forte che scrivere qualsiasi romanzo. Tutti i racconti del suo libro Finzioni sono allegorie dell’umanità, scritte con incredibile e paradossale lungimiranza. Uno scrittore cieco, che riusciva a vedere benissimo nel futuro.

RDN: Nella vita, attualmente, sei un avvocato come riesci a conciliare il tuo lavoro e la scrittura tenendo conto di quanto sia impegnativo anzi oserei dire una missione?

LB: Ti ringrazio per il modo gentile con cui descrivi la mia professione. Non so se sia davvero una missione, ma posso assicurare che si tratti di un impegno quasi totalizzante. È un lavoro che non ha un orario di svolgimento predefinito, non si può semplicemente ignorare una volta usciti dall’ufficio. Ormai, complice anche la tecnologia, ti insegue dovunque, non dà praticamente tregua. Mentre stai facendo tutt’altro ti arriva sul telefonino uno squillo, e magari eccoti servita la notifica di una sentenza trasmessa via PEC, oppure la comunicazione della data di un’udienza che sconvolge i programmi della tua agenda. Devi sempre stare sul pezzo, come si usa dire nel gergo giornalistico, le scadenze impongono dedizione assoluta e una programmazione capillare, una concentrazione esclusiva verso tutto quello che le dinamiche del caso impongono. Però, per fortuna, esistono i fine settimana, esistono l’oretta della pennichella e del dopocena. E in quei momenti, posso finalmente dedicarmi alla lettura di argomenti assolutamente decontestuali rispetto al mio lavoro. Anzi, spesso la mia giornata mi sembra un enorme periplo per arrivare a quei minuti in cui posso finalmente lasciarmi tutto alle spalle, e mettermi a sognare tra le pagine di un romanzo, o di un saggio.

RDN: Oltre al lavoro di avvocato curi un blog che si chiama dalrecensore.wordpress.com come è nato?

LB: L’idea del blog è nata da una mia personalissima ansia da ritenzione di cui rimango vittima durante alcune letture. Mi riferisco alla paura di non riuscire a trattenere alcune immagini, alcune riflessioni, alcune idee illuminanti o piacevoli trovate durante qualche particolare lettura. Ci sono alcuni scrittori che riescono ad esprimere concetti, o descrizioni in modi assolutamente folgoranti. E questo era piacevole. Solo che poi puntualmente mi capitava, a distanza di tempo, di non ricordare più dove avessi letto questa o quella frase, di ricordarla solo a metà, e di desiderare, invece di ritrovarla nella sua interezza e originalità. Un po' quello che succede dopo che ascolti una canzone per caso alla radio, dopo qualche giorno la vuoi riascoltare, e non ricordi dove l’hai sentita. Potevo restare minuti interi ad almanaccare congetture del tipo: “ma com’era quella frase a proposito di... e chi l’aveva detta... e dove...?”. Un dramma. Per combattere questa mia personalissima patologia, da alcuni anni annoto i brani che più mi piacciono sull’ultima pagina del libro, che di solito è bianca. Il blog è nato perché ad un certo punto ho pensato di eccedere nella “terapia” pensando di scrivere una recensione ogni volta che leggevo un libro. E per alcuni mesi l’ho anche fatto. Ma poi ho smesso, perché mi rendevo conto che sottraeva molto, troppo tempo, alla lettura, che, in fondo è la cosa che trovo più divertente.

RDN: Cosa ti ha spinto a decidere di scrivere dei libri quando abitualmente li recensisci?

LB: Probabilmente la risposta è nel fatto che per me recensire è soprattutto una forma di allenamento. Non si tratta di articolesse tradizionali, fatte, come di prammatica, attraverso lunghi e cervellotici periodi da apnea, zeppi di aggettivi altisonanti quanto impalpabili. Per me la recensione è una specie di esercizio, di esperimento, di spunto espressivo che sento di dover realizzare quando, dopo alcune letture, avverto un particolare formicolio nelle dita. Se percepisco che ci siano dei libri che meritino una riflessione maggiore oltre alla lettura, allora dedico loro una recensione. Ma non sempre si tratta di recensioni positive, anche se prevalentemente lo sono. È una forma di esercizio, ma anche un esercizio di forma. Ultimamente le mie recensioni sono diventate delle occasioni per alcune trovate estemporanee. Dei pastiches, oppure delle lettere immaginarie all’autore, o ancora delle sinestesie intertestuali, o delle pseudo requisitorie encomiastiche. Insomma, la recensione può essere una forma letteraria autonoma che prenda spunto da determinati testi ai quali si intenda rendere omaggio. Anche recensire deve essere una pratica divertente. E in effetti, da questo punto di vista non vedo molta distanza con la pratica di scrivere un romanzo vero e proprio. Nel romanzo, però, i libri “recensiti” sono talvolta più d’uno, e si omette completamente di indicarli. Però ci sono sempre.

RDN: Il 14 Ottobre 2020 esordisci con il tuo primo romanzo “Tutta Una Questione di Algoritmo” per la Casa Editrice Brè Edizioni, parlaci di questo libro…

LB: È un romanzo costruito attraverso una serie di omissioni, che dovrebbero poi colmarsi strada facendo, descrivendo il percorso compiuto da un personaggio per portare a termine un impegno lavorativo. Nel corso del suo viaggio, però, non tutto andrà come previsto e il mio eroe avrà modo di ricredersi a proposito dei progetti che aveva elaborato e programmato prima di partire. Nel corso della sua fuga il proprio algoritmo sembra perdere la bussola, e gli accadono cose incredibili ed inspiegabili. Anche la struttura del testo si modifica attraverso l’evolversi degli eventi, passando da un racconto d’azione, ad un giallo psicologico, fino a sprofondare in un abisso onirico, per poi tramutarsi di nuovo in una novella metaletteraria. L’idea è nata dalla volontà di liberarmi di alcuni fantasmi che aleggiavano nella mia testa da diverso tempo.  Ho iniziato dapprima ad immaginare l'episodio centrale del libro, dove il protagonista si trova nella libreria e si imbatte in un libro in cui c'è scritto qualcosa che lo lascia sbigottito. Dopo, a poco a poco, ho ricostruito un percorso per arrivare, e poi per uscire, da quella situazione. Però, in parte, quanto narrato è ispirato ad un fatto accadutomi davvero durante un viaggio di lavoro. Lo spunto per un canovaccio romanzesco ce l’avevo davanti ai miei occhi, dovevo soltanto camuffarlo, e rendere il vero verosimile, e il possibile impossibile.

RDN: Nell’opera che hai realizzato quanto c’è di invenzione e quanto di tua esperienza di vita personale?

LB: È difficile fare percentuali; c’è sia esperienza che immaginazione, mescolate in maniera più o meno equilibrata. Però almeno su una cosa possiamo stare tranquilli, non c’è nessun alter ego nel mio romanzo.  Quel protagonista sono io, quindi solo ego, non c’è dubbio. Il primo romanzo è spesso concepito con una particolare intensità tragica, perché chi scrive sa che potrebbe sempre essere l’ultimo. Si potrebbe non avere più il tempo, o l’ispirazione, o la calma interiore per scrivere ancora, in futuro. E nello stesso momento si avverte la necessità di includervi tutto. Ogni intuizione estetica vissuta fino a quel momento. È una sorta di testamento spirituale, nel quale si dispone compiutamente di tutte le proprie sostanze morali, emotive e mnemoniche nel timore che restino obliate in qualche cassetto della nostra trivialità. Per questo si sperimentano soluzioni, idee, congetture spesso drastiche e palingenetiche. Dopo, magari, una volta presa consapevolezza della possibilità di un “seguito”, si potrà impugnare con più tranquillità la penna, magari cimentandosi su uno specifico tema, su un soggetto, su un episodio. Ma l’opera prima è il condensato di un mondo interiore che l’autore teme di lasciare inevaso. Ovviamente, sto generalizzando, ma in realtà parlo per me, e di me. Io avevo questa paura. Per questo il libro è pieno di riferimenti, connotazioni, citazioni che esprimono il mio immaginario in maniera quasi totalizzante. La vera difficoltà è stata quella di averlo fatto in 130 pagine, piuttosto che in 900.

RDN: Se dovessi usare tre aggettivi per descrivere questo libro quali useresti?

LB: Domanda insidiosa, quant’altre mai. Ennio Flaiano ammoniva, nella sua esilarante Grammatica Essenziale: non si risponde degli aggettivi incustoditi. Ed aveva ragione. Ne basta uno fuori posto e si può finire in tribunale. Sono la dannazione di ogni romanziere, la scappatoia per sfuggire dal terrore perifrastico. Dall’imposizione di una lingua costruita su quel fossile tomista del dualismo sostantivo-aggettivo, sostanza e accidenti. David Foster Wallace in un racconto impiegò diverse pagine per spiegare cosa significasse “depresso”. E per farlo usò anche intere sequenze di parole tenute insieme con i trattini. È una tecnica molto diffusa nella lingua inglese, che chiamano anche en dash. Rende benissimo l’idea. L’ho usato anch’io nel mio romanzo. Quindi, quanto ai tre aggettivi, il primo dovrebbe questo: un-romanzo-che-non-si-possa-ancora-esprimere-con-agli-aggettivi-attualmente-esistenti-per-descrivere-i-romanzi. Quanto al secondo aggettivo (visto che proprio dobbiamo usarne), direi: metamorfico. Perché una delle caratteristiche del mio libro è la modifica continua del livello di lettura e di fruizione che permette. Prima un livello letterale, poi morale, lirico, allegorico, simbolico, postmoderno, onirico, e tanti altri. Non appena il lettore ha iniziato a condensare un’aspettativa su un livello, ad esempio pensando di trovarsi di fronte ad un thriller, come lascerebbero presumere le sequenze iniziali, improvvisamente accade altro. Il livello successivo farà crollare le supposizioni precedenti, come un soffio d’aria su un castello di carte. Terzo aggettivo (a questo punto chiudiamo la partita): picaresco. In fondo, è il racconto di un viaggio. E questo tipo di racconto ha metodiche rimaste, più o meno, costanti sin dal Medio Evo. Gli spostamenti a cavallo ora si fanno in automobile o in aereo; non si cerca il grall ma qualcosa di altrettanto ineffabile; non si combattono i draghi ma mostri ugualmente pericolosi. E poi, una volta in strada, si ha la stessa sensazione di smarrimento del cavaliere errante: la realtà che si immaginava di trovare prima di partire - con i suoi principi, codici, riti, modi - sembra scomparsa.

RDN: Grazie a questo libro hai ottenuto la Menzione Speciale al Premio Bukowski 2020 e sei arrivato nei primi 5 al 1° Concorso Internazionale Montag 2020, parlaci di questo evento?

LB: Sono state delle iniezioni di autostima, che è l’antidoto migliore per affrontare tutti i mali del mondo. Poi, per uno scrittore esordiente, lo sono in massima misura. I premi letterari ti danno la garanzia di avere almeno un lettore: il giurato. E non è poco, se pensi che Manzoni stesso sosteneva che per ogni scrittore esistono soltanto venticinque lettori, e gli altri sono soltanto acquirenti. Però credo che i premi siano un po’ come la scala di Wittgenstein, ti servono per arrivare a raggiungere una consapevolezza di te, ma poi vanno gettati via. Comunque è stato molto eccitante inviare il mio manoscritto alle organizzazioni che tenevano i concorsi, ricevere l’email con la comunicazione dell’esisto e leggere la motivazione dei giurati. Anzi, a voler essere del tutto sinceri, devo riconoscere che è stato proprio per via di questi premi che ho deciso di cimentarmi nella scrittura, perché volevo avere dei piccoli obiettivi da raggiungere per misurarmi con me stesso. E il risultato più grande è stato comunque quello di essere riuscito a scrivere il romanzo. Probabilmente, se non avessi trovato come stimolo il fatto di volerlo sottoporre a un concorso, non avrei trovato la motivazione adeguata a concentrarmi nella stesura. Forse, l’idea di scrivere un racconto sarebbe rimasta lì, come una cosa posata in un angolo, e dimenticata, per dirla alla maniera di Ungaretti. Invece così non è stato, e devo riconoscere che la “molla” che ha fatto scattare il meccanismo è stata senz’altro l’essermi imbattuto in queste iniziative.

Luca Bovino 3

RDN: In passato hai realizzato dei saggi di interesse giuridico: è stato complicato realizzarli o è più complicato scrivere un romanzo?

LB: Non c’è partita, è molto più complicato scrivere un romanzo. David Foster Wallace diceva che essere allo stesso tempo avvocato e scrittore è come fare insieme il narcotrafficante e l’agente antidroga. L’avvocato ha sempre il panico di essere frainteso, per questo si appoggia ai luoghi comuni del suo gergo: per non farsi scoprire. In fondo nel settore giuridico c’è già un testo (che è la legge) e c’è già un lettore ufficiale (che è il giudice). Quindi l’avvocato deve interpretare l’interpretazione, e cercare di farlo in punta di piedi, nel modo meno originale possibile, per non dare l’impressione di essere un usurpatore della funzione ermeneutica che è riservata ad altri. Il linguaggio letterario, invece, è creativo; il testo non c’è: lo realizza lo scrittore, con la collaborazione del lettore. Scrittore e lettore sono un’associazione a delinquere finalizzata alla creazione di falsi. Umberto Eco l’aveva detto bene: tra quei due c’è un patto illecito: uno fa finta di scrivere la verità, l’altro fa finta di crederci. E si divertono frodandosi a vicenda. I poeti sono strane creature, ogni volta che parlano è una truffa, cantava De Andrè (che era sia poeta che musicista, e quindi doppiamente illecito). E poi la scrittura non ha vere e proprie regole: si possono usare licenze lessicali, abolire la sintassi, invertire sequenze temporali, alterare la logica. Tutto può andare bene per rendere un’immagine con le parole. Qui, la regola è che non ci sono regole: per questo le metafore vanno continuamente aggiornate, altrimenti si sente la puzza della plastica. E si finisce per diventare come i giornalisti citati sempre da Eco in Numero Zero, imprigionati nel loro gergo di frasi stereotipate: muro contro muro, giro di vite, pugno di ferro, eccetera eccetera. Lo scrittore può anche giocare con i ragionamenti, ma vuole provocare un’emozione. Mentre l’avvocato potrà anche giocare le emozioni, ma vuole provocare un ragionamento. Io posso dire di sapere perfettamente cosa aspettarmi quando mi approccio ad un testo giuridico, so dove reperire le fonti, come costruire le proposizioni, come individuare i punti di tenuta, e come arrivare ad una conclusione persuasiva. In campo letterario, invece, tutto questo non lo so, e lo scopro ogni volta. Però mi piace molto il fatto di essere professionista con la toga, e dilettante con la penna. Mi piace essere un dilettante quando scrivo un racconto, perché effettivamente provo molto diletto nel farlo.

RDN: Se dovessi dare dei consigli ai ragazzi che si avvicinano alla passione della lettura, da dove gli diresti di partire per scegliere un libro da leggere ed appassionarli in modo tale da non smettere mai di farlo?

LB: Se si tratta di ragazzi completamente digiuni alla lettura, consiglierei di non leggere libri di autori che di solito di studiano a scuola. La scuola avrà anche tanti meriti, ma ha il difetto di far rendere nauseosi anche gli scrittori più interessanti. La considerazione non è mia, è di Umberto Eco, che per inciso era un professore. Quindi, se lo diceva lui, non vedo perché dubitarne. Ad ogni modo io non credo di essere il soggetto più idoneo per enumerare liste di testi consigliati, queste sono cose che di solito fanno i professorini ai corsi di scrittura creativa; ma anche loro, poi, non si capisce bene con quale autorità, o autorevolezza si ritengano legittimati a stilare certe classifiche. Preferisco indicare il percorso di lettura che ho iniziato a fare io una volta interrotta la scuola dell’obbligo. Bukowski, Grisham, Dan Brown. E poi Sciascia, Calvino, Kundera, Stendhal, Borges. Dopo aver letto Borges, però, è nata una mia seconda vita di lettore, ho ripreso a leggere libri di filosofia, di semiologia, di linguistica, perché volevo gustarmi le sue deliziose confidenze a proposito di quel mondo. E volevo cogliere quanti più livelli mi fosse consentito dalla fruizione della sua prosa intertestuale. E quindi Derrida, Eco, Todorov, Propp. Però, è bene che ognuno faccia i suoi percorsi, e inizi a familiarizzare con l’abitudine alla lettura, legga cose che riescano ad appassionarlo e coinvolgerlo, a prescindere dal grado di presunta classicità, o densità che possano avere quei testi. L’importante che coinvolgano, emozionino, trascinino. E in questo, però, la triade iniziale è una garanzia.

RDN: Hai in programma di realizzare altre opere o hai deciso di fermarti?

LB: No, non ho alcuna voglia di fermarmi. Anzi, ho già scritto quasi metà di un nuovo romanzo. Ed è un genere un po’ diverso. Anche se mantiene in comune con il precedente la volontà di voler abbattere le tradizionali categorie di genere. E quindi, da questo punto di vista si trova in buona compagnia col primogenito. Il romanzo secondo qualcuno sarebbe morto con la nascita della letteratura di consumo, perché la fantasia dell’autore sarebbe stata piegata alle esigenze editoriali. E in effetti gli editori, per non rischiare, tendono a rendere le pubblicazioni semplicemente dei contenuti da riempire per impostare investimenti economici puntando sull’usato sicuro, piuttosto che sull’audace novità. È accaduto per la letteratura quello che in qualche modo era accaduto per molte altre forme d’arte: è scomparsa la musica classica, l’artista tende a creare opere di compromesso tra la propria ispirazione estetica e un presumibile gradimento del pubblico cui si rivolge l’opera. Per me scrivere romanzi significa slegarmi da un’idea di utilità, o di ricerca di consenso. Scrivo per provocare, per deformare, per sperimentare, per capire, per capirmi, per ricordare, per dimenticare. Per contraddire e per contraddirmi. Tanto, nessuno è mai morto di paradossi. Diderot ci ha insegnato che un romanzo può avere tantissime modalità di espressione, e Borges le ha anticipate quasi tutte nei suoi racconti. Anzi, ha persino anticipato forme di romanzo che devono ancora essere pensate, come Humpty Dumpty faceva con le poesie di Alice. Noi tutti siamo Alice, ovvio, e viviamo in un universo Carroll-iano. Però, chissà perché, la nostra fantasia letteraria è rimasta ancora legata all’epopea dell’eroe e del recupero della quiete infranta. Mentre ci sono molti modi per sospendere l’incredulità. Ad ogni modo ho già le idee chiare per il terzo romanzo, e ho voglia di parlarne. Sarà il racconto epistolare apocrifo di una fanciulla avvelenata da un magnate delle telecomunicazioni perché non rivelasse i nomi dei programmatori informatici assassinati per impedire la conoscenza dei social network che avevano inventato. Descrivendo nel dettaglio tutte le loro caratteristiche, le funzionalità, i nomi e i cognomi dei programmi e degli autori, dei mandanti e dei mandatari. Ma non dovrebbe essere un romanzo di fantascienza: vorrei tradurlo in inglese e farlo spedire per posta dall’America a qualche procuratore italiano in cerca di notorietà, affinché avvii un’indagine contro ignoti, e poi contro di me, una volta compreso lo scherzo che gli avevo giocato. Abbiamo conosciuto processi intentati per molto meno, quindi, con qualche carta bollata, e qualche errore ortografico messo al posto giusto, potrei riuscirci. Il mio modello sarebbero i ragazzi dei falsi Modigliani degli anni Ottanta. Il massimo sarebbe se venissi processato, e magari arrestato per procurato allarme, o per calunnia, o per lesa maestà, o per qualsiasi altra cosa. Immagina, che pubblicità ne verrebbe fuori: sarebbe un caso letterario formidabile. Certo, so cosa stai per chiedermi: ma a questo punto, dove sarebbe il confine tra il romanzo e la sua promozione? Non l’ho ancora deciso, lo farò a suo tempo. Però, ecco, questo vorrei vedere in uno scrittore, oggi; e questo, invece, dispero di trovare. Non ci sono più le avanguardie, perché i romanzieri non si fanno più arrestare: si fermano prima.

RDN: Per chi volesse acquistare la tua opera letteraria dove possono trovarla?

LB: Su tutte le piattaforme internet dov’è possibile acquistare libri. Inutile fare pubblicità, perché chiunque acquisti libri le conosce benissimo, basta digitare il nome dell’autore e del titolo su qualsiasi motore di ricerca, accompagnati dalla parola “compra” e potrà riceverlo a casa in 24 ore. Ed è possibile comprarlo sia in formato cartaceo che digitale. In libreria, invece, la distribuzione è molto complicata per un esordiente, riesce difficile ottenere subito visibilità, quindi veicolare il libro attraverso quei canali può diventare addirittura controproducente. Però è l’obiettivo cui tendere, perché le librerie sono un vero e proprio trattamento di benessere per l’immaginario, sono un’oasi di stimolazioni fantastiche, sono la capitale del sogno, la patria dell’emozione. E non a caso il mio romanzo è ambientato in buona parte in una libreria. Però è possibile prenotarlo anche tramite qualsiasi libraio perché la distribuzione della mia casa editrice è collegata alla rete delle librerie italiane. Anche se, purtroppo, la libreria più grande d’Italia ha il nome che ricorda un uccello immaginario, e contiene al proprio interno la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto, e non ha scaffali fragranti di cellulosa e resina, ma solo sequenze decodificate di zero ed uno.

RDN: Benissimo Luca! Grazie ancora per la tua gentilissima disponibilità è stato molto interessante parlare con te.

LB: Io ti ringrazio di cuore, per l’invito! A presto!

Come avete poi potuto vedere la voglia di raccontare qualcosa, di trasmettere emozioni o semplicemente di provocare una qualsiasi reazione accompagnata dalla passione diventa una forza esplosiva che nessuno può fermare neanche la pandemia attuale. 

Con questo vi saluto e alla prossima!

Grazie da Almax Magazine per la cortesia e disponibilità. Con affetto e stima!

copertina tuttaunaquestionedialgoritmo

RECENSIONE

Questo mese, per lo spazio dedicato alle recensioni dei libri lo facciamo proprio con il mio ospite del mese che ci ha presentato il suo primo libro durante la nostra chiacchierata che vi ho proposto precedentemente, ovvero Luca Bovino.

Il libro in questione si intitola: “Tutta Una Questione Di Algoritmo”.

La trama del libro gira intorno ad una domanda: La nostra vita è regolata da un algoritmo? La risposta dell’autore è Non lo so, di certo siamo parte di un immenso meccanismo composto da sette miliardi rotelle, e quando se ne inceppa una, nascono i problemi. Il protagonista è un avvocato, cui manca un bonifico ed è costretto a un precipitoso viaggio a Bologna per recuperare la somma. Cosa volete che sia un volo aereo Bari-Bologna? Eppure… quando l’algoritmo non gira, quando gli ingranaggi s’inceppano, accade di tutto: il traffico, il navigatore, i passaggi a livello, il nervoso! La perdita della lucidità, sommata alla fretta, al timore di non farcela, renderà un banale viaggio di lavoro in una giungla inestricabile di problemi, di frustrazioni, di discussioni, di insidie devastanti. Ce la farà il nostro eroe a raggiungere l’agognata meta? Riuscirà a recuperare la somma bramata? Speriamo, sperando non cambino di nuovo l’algoritmo, vero Mr. Zuckerberg?

Personalmente è un genere di libro che non rispecchia i miei gusti ma non per questo non si può dire che non sia interessante e che non sappia fornire spunti personali o riflessioni.

L’ho trovato molto scorrevole nella lettura, in quanto l’autore utilizza un linguaggio semplice, diretto e una descrizione delle situazioni e dei luoghi minimale. Ti porta ad immedesimarti nei protagonisti trovandoti a vivere con loro ogni singolo istante ed ogni singola emozione.

Ammetto che seppur molto interessante e coinvolgente di non aver capito il messaggio che voleva comunicare e per certi versi di non aver capito il senso della storia ma forse è proprio questo che lo scrittore voleva fare mettere alla prova il lettore e vedere cosa avrebbe colto da esso. Sicuramente è un libro fuori dagli schemi classici della letteratura, un romanzo che scombussola non solo gli schemi della scrittura ma anche gli schemi della vita. Un libro che vuole insegnare a chi legge che per sopravvivere bisogna ragionare e pensare fuori dagli schemi ordinari e lasciarsi andare all’improvvisazione del momento per imparare a godersi di più la vita.

Consiglio questa lettura a tutti quelli che per una volta vogliono tuffarsi a leggere qualcosa di alternativo e originale.

Inoltre vi ricordo che chi fosse interessato ad acquistare il libro lo potete ordinare su tutte le piattaforme online, in tutte le librerie oppure direttamente dal sito della Casa Editrice a questo link Errore.  Riferimento a collegamento ipertestuale non valido. Auguro a tutti voi buona lettura!