Mai come in questo periodo storico, si sta parlando del male di vivere, che sfocia in efferati omicidi verso chi si diceva di amare, mascherandosi però anche dietro a inspiegabili suicidi da parte di giovanissimi, che non riescono ad affrontare i problemi della vita. Cosa sta succedendo a questa società, che dopo il periodo Covid, appare più fragile, ma nel contempo anche rabbiosa? Lo abbiamo chiesto al Dott. Stefano Callipo, Presidente nazionale e fondatore dell'Osservatorio Violenza e Suicidio, Psicologo Clinico, Giuridico e Psicoterapeuta.
Dottor Callipo? Perché è in aumento il male di vivere?
Il male di vivere ha origini abbastanza lontane, anche perché in realtà è una spia di un malessere della società, che si sta accendendo su più fronti. E' un segnale che la società sta sottovalutando, le famiglie stanno sottovalutando, i genitori stanno sottovalutando. E' un sintomo di malessere che mette in luce non soltanto le carenze normative, ma proprio le carenze della capacità della società di educare in modo efficace e sano, perché oggi, i ragazzi i valori li trovano sui social e non più in famiglia.
I più colpiti parrebbero essere i giovani.
I più colpiti sono i giovani, ma la fascia più colpita si sta abbassando notevolmente. Se noi pensiamo che durante il periodo del Covid, soltanto nel Lazio c'è stato un aumento di circa il 15% di condotte autolesive di ragazzi di un'età compresa tra i 10 e i 12 anni. Quindi, è un segno di malessere molto importante, con un aumento di giovani con problemi di disturbi alimentari, sintomi depressivi negli adolescenti, ma soprattutto nei pre adolescenti, che solitamente sono rari, quindi, sono tutti indicatori di sofferenza, che si stanno manifestando in una fascia d'età sempre più bassa.
Quali sono i segnali da non sottovalutare in chi potrebbe compiere un atto come il suicidio o come l'omicidio?
Atti efferati come il suicido o come la condotta omicidiaria, sono due contesti completamenti diversi. Un ragazzo che arriva a togliersi la vita, in realtà non fugge, cioè, non ricerca la morte, ma scappa dalla vita, scappa da un dolore mentale, che non riesce più a provare. Quindi, non riesce più ad avere l'alternativa a questo dolore mentale e decide di togliersi la vita. Ma spesso, chi prende ad esempio un brutto voto a scuola e decide di uccidersi, non è mai quello il vero motivo, ma è l'evento precipitante di una situazione che si è costruita nel tempo.
Una situazione non uguale, ma simile, la si riscontra in chi commette un omicidio. Teniamo conto che, un soggetto che arriva a essere violento o a uccidere, non si alza la mattina e scopre di essere violento o assassino, ma è una persona che ha già dato quasi sempre dei campanelli d'allarme, che non sono stati colti o sono stati sottovalutati. Un soggetto che arriva ad uccidere la propria donna o la ex findazata, è un individuo che aveva già manifestato delle forme di malessere anche pericolose, perché bisogna tenere conto che non c'è soltanto questa forte possessività, ma anche l'incapacità di gestire un rifiuto.
Questi sono tutti indicatori, che l'individuo solitamente manifesta sia a livello famigliare, che a livello relazionale con i propri amici. Quindi, questa rigidità cognitiva, è già terreno fertile su cui si può creare quello che io definisco: una molla che si comprime sempre di più e poi basta un evento precipitante, per far scattare la furia omicidiaria. Quando un ragazzo, arriva ad uccidere con un alto numero di coltellate in specifiche parti del corpo, manifesta una rabbia ed aggressività, che si è portato probabilmente dentro da tempo e non può essere nata nel qui ed ora. Ecco, è importante capire, che i segnali ci sono e devono assolutamente essere colti.
Molte vittime credono ai ricatti morali: “Se mi lasci mi uccido”. Spesso si dice che chi minaccia di uccidersi, poi non lo fa.
Non esiste una legge, nel senso che chi dice: “Mi uccido”, bisogna guardare il contesto in cui lo si dice. Se lo si dice a casa, se lo si dice all'interno della famiglia, io ritengo che anche se fosse un motivo per attirare l'attenzione, merita comunque un'indagine, perché il suicidio ha delle forme molto mascherate, molto latenti nelle sue manifestazioni finali.
Diverso invece è nella relazione amorosa. Spesso dire “mi uccido”, in realtà è uno strumento per far leva sui sensi di colpa della vittima, sovente può essere una condizione con cui legare emotivamente la persona e renderla molto più legata a sé, costringendola e manipolandola a fare ciò che le si dice. Perché, è chiaro che, se io penso di suicidarmi, tu devi sentirmi più volte, devi cedere a quello che io dico. Nel momento in cui ci ritroviamo a non essere noi stessi e a non reagire, per paura che l'altro si arrabbi, viviamo già in una situazione pericolosa, per il semplice motivo, che spesso si è manipolati senza saperlo.
Dobbiamo essere molto attenti ai campanelli d'allarme, che si manifestano soprattutto in famiglia e non soltanto a scuola o tra i nostri amici. Innanzitutto, la scarsa tolleranza alla frustrazione, è fondamentale educare le persone a tollerare un rifiuto: noi dobbiamo accettarlo. E soprattutto, avere la capacità di accettare una perdita, altrimenti può scattare quel meccanismo patologico in alcuni soggetti, per cui, distruggo l'oggetto che non posso avere. “Tu mi vuoi lasciare, così io ti uccido, perché nessun altro ti avrà”. Questo è un meccanismo purtroppo psichico, che può scattare in particolari soggetti. E poi, esiste la regolazione emotiva, la regolazione impulsiva. Noi dobbiamo essere in grado di regolare le nostre emozioni, se vediamo un amico, un compagno, ma soprattutto un fidanzato, che utilizza delle reazioni abnormi, rispetto a ciò che sta avvenendo. Per esempio: “Ho detto una cosa che non ti piaceva, allora ci lasciamo”, questo catastrofismo, in realtà può essere uno strumento manipolatorio molto forte, ma anche una pista di reazione impulsiva, che può veramente metterci in condizioni di dire: “Io scappo”.
Una volta succedevano questi efferati episodi ed erano messi a tacere, oppure è veramente una conseguenza di un'evoluzione che molte cose sono cambiate.
Allora, esiste un duplice aspetto per rispondere alla sua domanda. Il primo è che oggi, c'è una maggiore sensibilità, quindi, emergono fatti, che prima anche se c'erano, non emergevano: la società è molto più attenta da questo punto di vista. Dall'altro, è aumentato il malessere, anche dopo il Covid, basta farci due passi per strada o guidare la macchina, per percepire negli altri un'aggressività sempre più alta. Questa aggressività è chiaro che, espone maggiormente anche i minorenni. Un minorenne che viene esposto a un'aggressività o a conflitti in famiglia, è palese che si carica di un'aggressività che se non riesce a scaricare, la tiene per sé. Quindi, è un malessere generale, che fa emergere in maniera ancora più puntuale episodi di femminicidi. Il femminicidio è una parola che fino a quindici-vent'anni fa non esisteva, non si conosceva, nato con un aumento di aggressività esponenziale, che si origina in famiglia e poi esce fuori.
E' giusto dire ai bambini piccoli, i famosi “no” che fanno bene?
I no servono. L'obiettivo è educare i nostri figli a una sorta di emotività, cioè, ci deve essere un'educazione emotiva, ovvero educare il soggetto alle emozioni. I docenti mi chiedono: “Ma come si fa”? Allora, teniamo conto che fino a 12 anni, il bambino parla coi genitori, ascolta i genitori e interagisce coi genitori. Dopo, inizia quella fase dell'adolescenza in cui ha bisogno di un'autonomia, si stacca dal genitore, pur essendo il genitore un riferimento molto importante, per poi ritornare verso i vent'anni a un rapporto più maturo con i propri genitori. Quindi, fino a 12 anni, il genitore ha una grande possibilità di dialogare col proprio figlio. Perciò, anche quando i nostri bambini hanno 6-7 anni, giochiamo con loro, parliamo con loro, ma soprattutto facciamo delle domande psicologiche, emotive. Non chiediamo: “Cosa hai fatto?”. Chiediamo: “Come stai?”. Quando nostro figlio, un bambino di 6-7-10 anni, ci racconta un episodio, chiediamo cosa prova rispetto a questo episodio, impariamo a manifestare le emozioni: “Ti voglio bene”, “Sono felice”. Chiediamo al bambino di manifestare i propri stati emotivi, perché educandolo a una sana manifestazione degli stati emotivi, lo educhiamo a una corretta regolazione emotiva, ma soprattutto ad avere una capacità empatica, che è assolutamente incompatibile con quanta aggressività noi leggiamo dalle pagine dei giornali. Quindi, educare alle emozioni un bambino, significa creargli una profilassi emotiva, che lo proteggerà da tutti quegli stimoli patogeni, che sicuramente incontrerà nell'arco della sua vita, ma soprattutto nell'adolescenza che andrà poi ad affrontare. Questa è la vera profilassi, secondo me.
Quanto incide lo spirito di emulazione
Lo spirito di emulazione incide tantissimo ed è molto forte. Anche in questo caso, la colpa è dei genitori, perché ormai i riferimenti primordiali nella famiglia, il bambino non li trova più. Si ritrova una madre che, anziché fare la madre, diventa una persona in competizione: si vestono uguali, camminano uguali, la mamma amica, che è la cosa più distruttiva per un figlio. I valori ormai, i bambini, i ragazzi, li cercano nei social. Quindi, anziché in un padre o una madre, il valore viene cercato nella Tik Toker di 14 anni, che ha milioni di followers. Il potere di influenza, vivendo più nei social che nella famiglia, è molto alto, quindi, essendo alto tutto questo, è chiaro che gli stimoli patogeni e che espongono un soggetto a rischio, anche suicidari, come abbiamo visto, è molto forte. In questo senso, dobbiamo essere molto attenti.
Ma la responsabilità è anche, purtroppo bisogna dirlo, dei social stessi, perché oggi a 9 anni, 10 anni, si può con un profilo falso entrare in qualsiasi social, creare un profilo e purtroppo accedere anche a contenuti che non appartengono all'età evolutiva dei ragazzi: sui social ormai si trova veramente di tutto. Quanto più un ragazzo nella famiglia è isolato dal punto di vista affettivo, quanto più ha bisogno di rivolgersi ai media. E' chiaro poi che il potere di influenza in quel caso è ancora molto più forte: se noi pensiamo al blue whale, se pensiamo anche a quei suicidi, che in realtà non sono suicidi, ma sfide perse delle challenger, sono delle trappole vere e proprie, perché purtroppo l'impegno e l'attenzione che il ragazzo ci mette per vincere una challenger, è superiore all'attenzione che magari trova in famiglia. Ecco perché dovremmo riappropriarci di quei valori da trasmettere ai nostri figli. Ma la crisi, in realtà è una crisi genitoriale, dei genitori oggi in questa fase di vita, in questa era, dove sono in crisi e incapaci di trasmettere i giusti valori. Ripeto: noi pensiamo soltanto alle mamme amiche, o ai genitori separati in casa: i separati in casa non esistono. Essere genitori è una responsabilità importante.
Dott. Stefano Callipo, Presidente nazionale e fondatore dell'Osservatorio Violenza e Suicidio, Psicologo Clinico, Giuridico e Psicoterapeuta. Docente Istituto Superiore Tecniche Investigative dell'Arma dei Carabinieri (I.S.T.I.) per i corsi di contrasto alla violenza di genere. Docente Accademia SAPP – Scuola di Specializzazione. Ha ideato ed è responsabile della Linea di prevenzione del rischio suicidario e della gestione di crisi suicidaria presso la Cassa di Assistenza Sanitaria Integrativa (Sanimpresa). Docente in diversi istituti di criminologia. Autore di diverse pubblicazioni, tra cui “IL SUICIDIO”, edito dalla Franco Angeli. Presente in diverse trasmissioni televisive nazionali.
Rossella Biasion